La sua genesi venne teorizzata negli anni ‘50 da Georges Henri Riviere con la volontà, sulla base del modello scandinavo, di proporre un’istituzione destinata a preservare e promuovere le tradizioni popolari. Un modello di forte incidenza sociale che gestisse, studiasse ed esplorasse attraverso mezzi scientifici gli aspetti educativi e culturali di genere assieme al patrimonio globale della comunità, civile e paesaggistico. La concezione originaria era nient’altro che la musealizzazione attiva di un territorio, patrocinata dai suoi membri attraverso l’ecomuseo definito come potenziale mezzo di studio per la salvaguardia dell’ambiente e della stessa comunità aiutandola ad acquisire maggiore coscienza delle responsabilità per un suo possibile sviluppo. È la via che ne ha permesso la definizione ideologica e la sua successiva concretizzazione.
Un ecomuseo è uno strumento che una popolazione concepisce, fabbrica, esplora. Uno specchio in cui questa comunità riconosce la sua appartenenza, in cui cerca risposte sull’evoluzione del suo territorio: uno specchio che questo gruppo di abitanti sceglie di offrire con l’occasione di farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità. Un’espressione dell’uomo e dell’ambiente in cui abita: una natura spezzata e interpretata nel suo stato sia selvaggio che civilizzato. Un’espressione del tempo, un’interpretazione dello spazio attraverso luoghi privilegiati, ove sostare o passeggiare. Un laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la formazione di specialisti, in collaborazione con le organizzazioni di ricerca esterne. Un sito di conservazione e di educazione, testimone dell’evoluzione del territorio quanto delle generazioni che verranno.
Seguendone la storia e le sue trasformazioni in Francia, il termine “ecomuseo” e’ stato coniato da Hugues de Varine nel 1971. Negli anni ’70 de Varine assieme a Riviere si interrogarono sulla funzionalità dell’ecomuseo in termini gestionali attuando, si ipotizza, una serie di norme delegate a un gruppo di cittadini affiancati da tecnici o consiglieri. L’insuccesso dell’ecomuseo nel suo modello iniziale, e la sua progressiva trasformazione vicina, in termini burocratici e conservativi a una struttura museale tradizionale, dimostrano non solo le difficoltà pratiche – mera utopia – politico-sociali ecomuseologiche, ma la forza del museo tradizionale come macchina culturale efficiente nel suo scopo di conservare il patrimonio culturale. La parola ecomuseo oggi è di moda, e ingloba per la maggior parte piccole realtà locali connesse a zone particolari dal punto di vista ambientale come aree protette. Destinate normalmente all’esposizione della flora, fauna e delle tradizioni contadine, gli ecomusei si diffusero dapprima in suolo francese ove oggi esiste una federazione dedicata, e secondariamente in altri paesi francofoni come il Canada. La spinta sperimentale ne consentì la localizzazione in molti altri paesi europei con peculiarità territoriali come parchi naturali, aree paleoindustriali dismesse o valli isolate dallo sviluppo turistico di massa. Dagli anni ‘90 gli ecomusei si moltiplicarono in suolo italiano sbocciando nel torinese ed etichettati come una delle forme più innovative nella difficile ragnatela che intreccia caratteri di conservazione, sviluppo, cultura, turismo, ambiente, identità. Una sfida sociale volta alla riqualificazione di luoghi spesso inesplorati o poco valorizzati, di cui a volte gli stessi abitanti ignorano le potenzialità: una risorsa quindi che sia allo stesso tempo memoria storica, fonte di reddito e motivo di orgoglio. L’Italia è un Paese invidiato per le sue ricchezze naturali, artistiche e culturali e concentra la più alta presenza di siti UNESCO al mondo, il Paese delle Meraviglie come definito da Alberto Angela. A oggi in Italia esistono un centinaio di realtà certificate e pienamente operative presenti in tredici regioni o province: Piemonte (1995), Trento (2000), Friuli Venezia Giulia (2006), Sardegna (2006), Lombardia (2007), Umbria (2007), Molise (2008), Toscana (2010), Puglia (2011), Veneto (2012), Calabria (2012), Sicilia (2014), Lazio (2017).
Attraverso il Manifesto, gli ecomusei italiani definiscono se stessi come “processi partecipati di riconoscimento, cura e gestione del patrimonio culturale locale al fine di favorire uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile. Gli ecomusei sono identità progettuali che si propongono di mettere in relazione usi, tecniche, colture, produzioni, risorse di un ambito territoriale omogeneo con i beni culturali che vi sono contenuti. Gli ecomusei sono percorsi di crescita culturale delle comunità locali, creativi e inclusivi, fondati sulla partecipazione attiva degli abitanti e la collaborazione di enti e associazioni”.
Nel 2016 si è svolto il primo Forum di ecomusei e musei comunitari nell’ambito della 24ª Conferenza Generale ICOM “Musei e paesaggio culturale” di Milano, con l’obbiettivo di condividere esperienze, domande, soluzioni in merito ai siti esistenti e progetti futuri decidendo di creare un gruppo di lavoro internazionale permanente per la formulazione di proposte sulle tematiche inerenti. Nel 2017 è stata creata la piattaforma multilingue DROPS come rete di interscambio, dove sono censiti tutti gli ecomusei, musei comunitari e ONG assieme a novità e consigli utili.
In copertina uno scatto dell’Ecomuseo Palude La Vela del Mar Piccolo, Taranto.